Zen by Marangoni Rossella

Zen by Marangoni Rossella

autore:Marangoni, Rossella [Marangoni, Rossella]
La lingua: eng
Format: epub
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


Lo zen d’ogni giorno: gyōji e samu

La nozione di pratica continua (gyōji), nello zen, è espressa dalla locuzione gyōjūzaga che letteralmente significa “in cammino (gyō), in piedi (jū), seduto (za), sdraiato (ga)”. Essa evidenzia come colui che pratica lo zen debba porre attenzione a ogni suo atto, sia che si tratti di un’azione ordinaria, sia che si tratti di un’azione di infima importanza. Lo zen è pratica continua, presente in ogni momento della vita quotidiana, richiede pertanto assoluta vigilanza. Non vi è allora separazione fra pratica e vita, non vi è soluzione di continuità fra zazen (meditazione da seduti) e samu (lavoro quotidiano). Questo concetto è soprattutto presente nel pensiero di Dōgen Zenji, che dedicò un capitolo dello Shōbōgenzō (Tesoro dell’Occhio della Vera Legge) alla nozione di gyōji: “Nella grande Via dei Buddha patriarchi c’è sempre una pratica suprema e continua, che è la Via che non ha né inizio né fine. Il risveglio del pensiero dell’illuminazione, la pratica, la bodhi e il nirvāņa non presentano la minima frattura, ma sono una pratica continua che va avanti per sempre”.

Samu (lett. “servizio mediante il lavoro”) è il lavoro manuale compiuto con consapevolezza, una forma di pratica altamente apprezzata nello zen già dai primi patriarchi cinesi. Si tratta del lavoro quotidiano che, almeno nei monasteri di osservanza sōtō ha la stessa importanza dello zazen.

Samu può essere considerato meditazione in movimento. I compiti giornalieri, all’interno del monastero, come pulire, spazzare, spolverare, lavare i pavimenti, curare i giardini, raccogliere foglie, preparare il cibo, sono tutti svolti con meticolosità. Ognuna di queste azioni, pur modesta e comune che sia, viene compiuta con la dovuta ritualità e la consapevolezza che, sull’insegnamento del maestro cinese Baizhang (720-814), “un giorno senza lavoro è un giorno senza cibo”. È proprio a Baizhang che viene attribuita la formalizzazione delle regole monastiche dello zen. E anche se è accertato che il primo codice attribuitogli, il Baizhang chinggui, sia stato compilato in epoca più tarda (attorno al 1100), è probabile che fu proprio il maestro a ispirare le norme volte a regolare la vita monastica e a disciplinarne tempi e attività. In Cina, una mentalità pragmatica e condizioni climatiche spesso particolarmente rigide impedivano la riproduzione delle originarie condizioni di vita del monachesimo indiano, nel quale era proibito ai monaci il lavoro manuale. Inoltre la comunità era sempre vittima della scarsa considerazione confuciana per i monaci “parassiti”. Se il modello del monaco indiano era, allora, il bhikşu, l’asceta mendicante, per i monaci chan, in Cina, e per i monaci zen giapponesi, l’esempio da seguire fu quello dei primi patriarchi cinesi che non disdegnavano il lavoro manuale, considerandolo uno strumento di salvezza e un modo per diffondere la Via attraverso l’esempio di una vita ordinaria praticata da persone comuni. Un esempio illustre è dato dal Sūtra della pedana di Huineng in cui si racconta di come il Sesto Patriarca avesse passato il periodo di permanenza presso il monastero di Hongren, il Quinto Patriarca, spaccando legna e pestando il riso. Anche se si tratta di una narrazione, pure il riferimento al lavoro manuale resta significativo.



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